Ve lo chiede l’Europa

Oggi sono un po’ così. Pacatamente. Graziosamente. Educatamente.

Una dedica, breve, concisa. Pacatamente. Graziosamente. Educatamente

A tutti coloro che (s)parlano, senza umiltà, che giudicano storie di decenni con una frasetta sui social. Pacatamente. Graziosamente. Educatamente

Che si sentono importanti, ma non hanno mai creato niente per esserlo. Pacatamente. Graziosamente. Educatamente

Che criticano la semplicità, perchè nelle loro mani è banalità ma nelle mani di altri è genio. Invidiosi. Pacatamente. Graziosamente. Educatamente

Bè a tutti questi dico…

…vaffanculo. Pacatamente. Graziosamente. Educatamente.

Ve lo chiede l’Europa.

The Walkman Generation

Più mi incontro e scontro con alcuni schizzi delle nuove generazioni, più scavo il solco che mi divide dalla loro concezione della musica.

Oggi tutto deve essere per forza stomachevolmente “culturale”, ogni ascolto deve essere un quadro nella loro pinacoteca virtuale del cazzo, deve sottintendere chissà quale apologia della storia, modo di atteggiarsi, deve essere dipinto a mille colori e neanche uno che serva a sfogare anche un solo istinto che hanno sotto la pelle, se lo hanno…

E stanno lì con un lettore mp3 che si potrebbe nascondere nel culo tanto è piccolo e le cuffie più enormi possibile. Perché io la musica la “devo sentire bene”, perché fa tanto “quello che la musica la ascolta fino in fondo”, da un mp3. Niente contro il formato in sé, io scrivo e ascolto la musica in cuffia dal telefono, mica da un vinile conservato come l’uccello del Papa.

Storie, storie e ancora (pallosissime) storie.

Alla mia generazione, quella non poco sfigata degli adolescenti degli anni ’90, la musica serviva a svegliarsi la mattina in quella merda di autobus blu delle sette e un quarto che ti portava a scuola (se poi decidevi di entrarci), serviva a sfasciarci nei pomeriggi annoiati a casa di qualcuno sperando di strusciare mezza mano (si e no il dorso) sul retrocoscia jeansato di qualche amica, serviva quando si occupavano le scuole sentendosi Dio e invece si era solo dei coglioni, ma bastava una Territorial Pissing e un motorino del tuo amico che alle 4 di mattina era entrato nell’androne sgommando, questo bastava a farti stare bene.

Mica serviva Proust.

La musica non era nessun cazzo di libro da portarsi in giro per far vedere quanto siamo impegnati, non erano le cuffie supersoniche ma le cuffiette con la gommapiuma “mangiata dai topi” e lo walkman scassato con le cassette che avevano preso maledettamente il sole (si, lo so, si dice “il” walkman… ecco, non siete degli anni ’90 allora…).

Non ci elevava manco per il cazzo, semmai ci sparava in vena quelle dosi di rabbia posticcia e insoddisfazione che faceva il pari con il reale star bene delle nostre vite da “non rockstar”, roba che non saremmo mai stati.

Eravamo ipocriti, stupidi, idealisti con pochi ideali e mangiacazzate.

Ma almeno non avevamo la spocchia.

Ci bastava che il volume stesse a 10 e che il gracchiare delle cuffiette ci fottesse i neuroni ogni giorno.

Ci sentivamo fighi non meno degli stronzetti di oggi, ma cazzo, ce ne sbattevamo di essere i bibliotecari della musica, con tanta robaccia in testa e il cazzo piccolo.

Bè, non tutti.

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Agosto fiorentino

Firenze d’Agosto è una realtà davvero diversa. Si abbassano le saracinesche, locali che hanno accompagnato la nostra vita per tutto il resto dell’anno sono ora vetrine buie con cartelli che riportano fredde date. Qualcuno cerca di sdrammatizzare con qualche dichiarazione ironica, forse per non infierire troppo su qualche cliente affezionato che quest’anno resterà chiuso tra le grandi mura di questa antica, meravigliosa ma a volte pur piccola e claustrofobica città.

I rumori delle strade non sono più grida e strepiti meccanici in ogni dove, non più  continue frenate, motori ruggenti, sirene e voci dei passanti; sembrano più sibilare qualcosa ogni tanto, concedersi un piccolo momento di vita per poi tornare in un silenzio a cui neanche le mura dei palazzi sono abituati.

Anche i quartieri più storici, quelli che ancora possono dirsi “affollati” da fiorentini, sono svuotati, riempiti durante il giorno dalla densa aria calda e dai turisti che si trascinano da un monumento all’altro muniti di cappelli, bottiglie d’acqua, ombrellini da sole e mappe e guide in ogni tasca; la sera invece, quando un filo d’aria comincia a passare tra le pedane dei pochi pub rimasti aperti, chi è rimasto si concede una birra e due chiacchiere oppure una passeggiata in questa Firenze più intima, sedata.

Alcune zone continuano comunque ad essere accorsate, alcune piazze restano il centro di una ridotta vita serale che sembra non volersi comunque arrendere; ma è strano passare in queste piazze e non riconoscere quasi nessun viso.

L’Agosto fiorentino è un limbo, un momento di vita sospesa, dove ti sembra di rimanere fermo mentre molti intorno a te corrono, viaggiano, diventano iperattivi per qualunque azione; chi rimane sembra restare a guardia della città, a volte annoiato, a volte coccolato dalla sua atmosfera.

Firenze resta una bellissima donna con le sue due facce, te ne innamori ma la odi anche un po’, tenti di scappare via ma poi ti manca, e anche in quei periodi in cui sembra non volerti parlare, chiusa nel suo orgoglioso silenzio, sa darti e toglierti allo stesso tempo. Ma nonostante tutto, anche d’Agosto, nonostante indossi un altro vestito, la riconosci sempre.

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Estremismo e realtà quotidiana

Oggi non voglio infarcire le mie parole di nessun “appeal” letterario, se mai ne sono stato capace. Voglio dire una cosa, chiara, precisa e molto semplice.

Smettiamola una volta per tutte di fare i “neutrali”, di non schierarci mai perché dobbiamo piacere a tutti.

Smettiamola una buona volta con la frase fatta “per me gli estremismi sono tutti uguali, di destra e di sinistra“.

Le ideologie, nella loro (immonda) “purezza”, sono deprecabili e su questo si può essere tutti d’accordo e farci i pompini a vicenda a lungo termine. Ma non quando si parla di fatti REALI, di vita QUOTIDIANA.

L’estremismo di destra è unico, terrificante, abbraccia ideali che non sono neanche assimilabili a una qualche analisi più o meno condivisibile del mondo e della storia, sono solo assunti che vanno stracciati e calpestati senza se e senza ma (tanto per usare un’espressione comune).

Il comunismo lede la libertà e personalmente rigetto qualsiasi attaccamento ad una mentalità di quel genere, ma stiamo parlando di teoria pura, di fasi storiche (per noi) trapassate. Non ho mai visto nessuno OGGIGIORNO venire a casa mia e dare fuoco al giardino in nome della lotta alla proprietà o altro. Skinhead e neofascisti invece li vedo, con i miei occhi.

Non ho mai visto un gruppo di comunisti vestiti come militari stalinisti andare in giro in gruppo e picchiare questo o quello per un discorso razziale o ideologico. Si ci sono i centri sociali e i loro alti e bassi (talvolta molto molto bassi), i black bloc, ma si tratta di gente incazzata e violenta a prescindere, non di gente con la svastica tatuata in testa che si divertirebbe a spaccare le ossa a una persona di diversa etnia solo perchè… esiste…

Mettiamo sul piatto quello che di reale, di vero, ci circonda, non solo la discussione storica “campi nazisti VS Gulag”. CHE PALLE!

L’estrema destra significa razzismo, significa violenza. Non è un’idelogia che “può far uso della violenza”, è un’ideologia che si fonda SULLA violenza. Su concetti di sterminio, di eliminazione del debole e del diverso ed i vari gruppi appartenenti a questa vergogna ne fanno sia intellettualmente (si fa per dire…) che fisicamente uso.

Se però vogliamo dire che è tutto uguale, per far quelli che condannano tutto e così passano per i più fighi del gruppo, chi vuole lo faccia pure.

Io a domanda rispondo: quale estremismo ti fa più paura? Quello di destra. Bastardi!

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Desideri e aspettative

Questo editoriale l’ho scritto ben due anni fa,  ma trovo che sia senza tempo e riproporlo oggi come tra dieci o vent’anni mi fa e farà sempre bene. Eccolo.

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Tratto direttamente da Wikipedia: “l’aspettativa è una posizione di attesa di un effetto acquisitivo incerto”; una frase scritta in legalese che sembra piuttosto scontata ma, in realtà, soffermandoci un attimo in più su ogni parola, possiamo scoprire quanto significato nascosto ci sia in questa breve definizione e quante amarezze, frustrazioni, delusioni siano insite nel concetto di “aspettativa”, uscendo ovviamente dal campo del diritto ed entrando in quello dei sentimenti umani.

In  un mondo creato e bilanciato sugli opposti, desideri e aspettative dipingono due status vitali nell’uomo, la cui differenza è sia formale che sostanziale. In pratica, è una differenza di… “movimento”, potremmo dire.
Il nostro movimento, ovviamente.
Nel corso dell’esistenza ci poniamo, o quantomeno ci dovremmo porre, degli obiettivi: si va dall’obiettivo quotidiano, in attività pur anche marginali ma ugualmente importanti a livello personale, a quelli “vitali”, quali la salute, l’amore, la casa, lo studio, il lavoro, etc…

Mentre il desiderio, che, attenzione, non è necessariamente il “sogno”, presuppone l’avere bene in mente (e nel cuore) il punto di approdo verso questi obiettivi, ma al contempo valutarne ed esaltarne il cammino che spetta a noi e solo a noi compiere, l’aspettativa svolge il ruolo di “punto morto”, di attività zero potremmo dire. Questo perché, tornando alla frase di cui sopra, è prima di tutto una “posizione di attesa”. L’attesa è il peggior nemico della vitalità, della creatività, della vita oserei dire in generale; è uno stato inattivo che non porta a nulla, che si illude che le cose arrivino da sole e che può portare così a delusioni e depressioni notevoli.

Oltre a questo, la definizione sottolinea anche un’altra caratteristica importante dell’aspettativa: “dall’effetto acquisitivo incerto”. Primo: effetto acquisitivo, ciò nel nostro caso significa che non siamo noi a creare o provocare l’effetto secondo una linea d’azione precisa, ma diamo per scontato che già esista e prima o poi ci cadrà tra le braccia. Secondo: incerto, il che ha due grandi conseguenze, farci rimanere perennemente nel limbo del dubbio (da cui la paranoia) e non risolversi mai completamente e con nostra totale soddisfazione (da cui la frustrazione).

L’aspettativa è quindi un triplo inganno: diamo per scontato che un risultato già esista di per sé, diamo per scontato che debba essere legittimamente nostro, diamo per scontato che prima o poi arriverà e non ci preoccupiamo minimamente di ciò che sta tra quel “prima” e quel “poi”, continuando solo a soffrire i colpi di un mare in tempesta.
Attenzione, ora colpirò i più “forti”. Impegno, costanza, passione, etc… sono tutte cose che nella vita vanno alimentate, sempre. Ma ciò non significa che avrete ciò che vi… aspettate!
Anche in questo caso, l’aspettativa è deleteria, forse ancora di più perché dà luogo a un sentimento di rivalsa verso il mondo, dal quale ci allontaniamo dipingendoci vittime di un’ingiustizia e chiudendoci in un guscio di pietra dalla sicurezza illusoria (anche la debole acqua pian piano corrode la roccia, è questione di tempo).
Ma ci siamo mai chiesti se, invece, i nostri sforzi non sono stati indirizzati ciecamente e freneticamente verso una e una sola causa, autolimitandoci tutte le possibilità alternative che intanto ci scorrevano accanto?

Arrivati a questo punto vi starete chiedendo il perché di questo discorso “filosofico”. Intanto, filosofico proprio non vorrei apparire, non ne sono in grado e spesso non ne accetto io stesso i metodi, né tantomeno c’è un intento “educativo” alla base di questo breve scritto.
Mi accorgo però sempre più spesso che le persone si pongono non più degli obiettivi, ma delle aspettative. È sempre colpa “di qualcun altro” se poi tali aspettative non si risolvono. Questo succede spesso a chi offre la propria arte ma è poco incline a mettersi in gioco e ad accettare la gavetta; si stilano lunghissimi elenchi di “cattivi”, senza però ricordarsi che quando si stringe il pugno per puntare il dito verso qualcuno, le altre tre dita rimangono rivolte contro se stessi.
L’altra faccia della medaglia, quando pensiamo di essere noi i “giudici”, non diamo la posssibilità di cambiamento all’artista (o semplicemente alla persona che ci sta a fianco, amico, compagno, collega), perché ci si “aspetta” che lui rimanga lineare, sempre uguale a sé stesso, per avere in noi sempre le stesse emozioni. Un po’ egoistico, non vi pare?

Cos’è quindi questo male che finora abbiamo chiamato “aspettativa”? È il ricamo sempre uguale di noi stessi sul mondo, è il nostro colore sulle sue immagini, sulle sue forme in movimento. Ma un mondo tutto dipinto dello stesso colore, è il peggiore dei mondi possibili.

Non pretendo di avervi detto niente di nuovo, non c’è nessuna verità miracolosa in queste banali parole. Ma forse, a volte, per realizzare qualcosa, dovremmo camminare e pensare in maniera diversa da ciò che siamo soliti fare, imboccare altre strade, muoverci senza pensare che esista una sola direzione per ognuno di noi, la sola che ci può rendere felici, o per dirla meglio, che ci aiuterà ad essere “migliori”.
Perché una volta ogni tanto qualche aspettativa si può pure avverare, ma chiedete a qualche escursionista di montagna cosa c’è dietro una cima appena raggiunta. Vi risponderà: un’altra cima!