The Walkman Generation

Più mi incontro e scontro con alcuni schizzi delle nuove generazioni, più scavo il solco che mi divide dalla loro concezione della musica.

Oggi tutto deve essere per forza stomachevolmente “culturale”, ogni ascolto deve essere un quadro nella loro pinacoteca virtuale del cazzo, deve sottintendere chissà quale apologia della storia, modo di atteggiarsi, deve essere dipinto a mille colori e neanche uno che serva a sfogare anche un solo istinto che hanno sotto la pelle, se lo hanno…

E stanno lì con un lettore mp3 che si potrebbe nascondere nel culo tanto è piccolo e le cuffie più enormi possibile. Perché io la musica la “devo sentire bene”, perché fa tanto “quello che la musica la ascolta fino in fondo”, da un mp3. Niente contro il formato in sé, io scrivo e ascolto la musica in cuffia dal telefono, mica da un vinile conservato come l’uccello del Papa.

Storie, storie e ancora (pallosissime) storie.

Alla mia generazione, quella non poco sfigata degli adolescenti degli anni ’90, la musica serviva a svegliarsi la mattina in quella merda di autobus blu delle sette e un quarto che ti portava a scuola (se poi decidevi di entrarci), serviva a sfasciarci nei pomeriggi annoiati a casa di qualcuno sperando di strusciare mezza mano (si e no il dorso) sul retrocoscia jeansato di qualche amica, serviva quando si occupavano le scuole sentendosi Dio e invece si era solo dei coglioni, ma bastava una Territorial Pissing e un motorino del tuo amico che alle 4 di mattina era entrato nell’androne sgommando, questo bastava a farti stare bene.

Mica serviva Proust.

La musica non era nessun cazzo di libro da portarsi in giro per far vedere quanto siamo impegnati, non erano le cuffie supersoniche ma le cuffiette con la gommapiuma “mangiata dai topi” e lo walkman scassato con le cassette che avevano preso maledettamente il sole (si, lo so, si dice “il” walkman… ecco, non siete degli anni ’90 allora…).

Non ci elevava manco per il cazzo, semmai ci sparava in vena quelle dosi di rabbia posticcia e insoddisfazione che faceva il pari con il reale star bene delle nostre vite da “non rockstar”, roba che non saremmo mai stati.

Eravamo ipocriti, stupidi, idealisti con pochi ideali e mangiacazzate.

Ma almeno non avevamo la spocchia.

Ci bastava che il volume stesse a 10 e che il gracchiare delle cuffiette ci fottesse i neuroni ogni giorno.

Ci sentivamo fighi non meno degli stronzetti di oggi, ma cazzo, ce ne sbattevamo di essere i bibliotecari della musica, con tanta robaccia in testa e il cazzo piccolo.

Bè, non tutti.

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